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Repêchage: la prova opera interamente sul datore di lavoro

Secondo la Cassazione (sentenza n. 5592 del 2016), in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del lavoratore licenziato, con esclusione di un onere di allegazione da parte del lavoratore, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri.

Detta pronuncia si discosta radicalmente da un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se da un lato l’onere di provare l’impossibilità di impiegare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita spettava al datore di lavoro, dall’altro lato il lavoratore che impugna il licenziamento aveva l’onere di indicare altre posizioni lavorative in cui essere ricollocato.

La tesi espressa dalla Cassazione nella pronuncia oggetto del presente commento sembra tuttavia confondere l’onere della prova, che senza ombra di dubbio compete al datore di lavoro, con la mera individuazione di elementi presuntivi volti a circoscrivere l’ambito di indagine sul repêchage del lavoratore licenziato.

Si pensi, ad esempio, ad un’impresa di grandi dimensioni con uno stabilimento produttivo di 500 dipendenti, in cui si dispone il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cinque operai, a fronte di una popolazione di non meno di 300 persone inquadrata nella medesima categoria. In siffatto contesto, infatti, l’onere di collaborazione richiesto al lavoratore, che impugna il licenziamento dinanzi al giudice del lavoro, tramite l’individuazione di possibili mansioni alternative nell’ambito dello stabilimento produttivo, ha solo una funzione di semplificazione dell’attività istruttoria che sarà svolta successivamente dal giudice e non equivale, certamente, a porre sulle spalle del lavoratore licenziato l’onere di prova circa la violazione del repêchage.

Se tale orientamento giurisprudenziale si radicasse, inevitabilmente, le nuove cause di impugnazione dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo saranno appesantite da un onere difensivo datoriale molto più consistente rispetto all’attuale, con conseguenziali ricadute sull’incremento dell’attività istruttoria demandata al giudice e, quindi, sulla durata complessiva del processo del lavoro.

Per comprendere appieno la portata del problema, occorre prendere in considerazione anche la modifica normativa apportata dal D.lgs. 81/2015 all’articolo 2103 del codice civile. Secondo la nuova disciplina, il datore di lavoro acquista importanti margini di flessibilità nella gestione delle mansioni: i cambi “orizzontali” diventano molto più agevoli, in quanto sarà possibile assegnare non più solo mansioni “equivalenti”, ma anche mansioni rientranti nel livello e nella categoria legale del dipendente.

Considerato che con la riforma il datore di lavoro ha maggiore libertà nel modificare le mansioni del dipendente, non è da escludere un ulteriore allargamento da parte della giurisprudenza del perimetro dell’obbligo di repêchage. In particolare non si può escludere che alla facoltà concessa al datore di lavoro di assegnare mansioni non equivalenti o addirittura inferiori corrisponda un obbligo di provare l’incollocabilità del lavoratore anche in mansioni inferiori prima di procedere con il recesso dal rapporto di lavoro.