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Insulti al proprio superiore gerarchico: il licenziamento non sempre è legittimo

Segnaliamo alcune interessanti pronunce, apparentemente di segno opposto, rese recentemente dalla Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sul licenziamento per giusta causa del dipendente che utilizzi espressioni offensive nei confronti del proprio datore di lavoro.

Con sentenza n. 14995/2012 la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha rigettato il ricorso presentato da un dipendente che aveva impugnato il licenziamento irrogatogli dalla società presso cui lavorava in ragione delle invettive tramesse dal medesimo per posta elettronica all’indirizzo dei dirigenti della società nonché suoi superiori ed anche perché le suddette le frasi offensive erano state diffuse – mediante intercettazione da parte della segretaria – ad altri colleghi.

Al riguardo il lavoratore, al fine di ottenere la dichiarazione d’illegittimità del proprio licenziamento per asserita carenza di giusta causa, adduceva l’esistenza di un comportamento datoriale vessatorio nei suoi confronti, che avrebbe determinato la sua reazione (consistente, appunto, nell’invio della missiva “incriminata”).

La Cassazione, confermando le tesi già sostenute sia dal Tribunale che dalla Corte d’Appello, ribadiva l’inesistenza dell’intento persecutorio da parte del datore di lavoro, evidenziando invece il contenuto offensivo del messaggio del dipendente e confermando la legittimità del provvedimento espulsivo in considerazione:
− della “volontarietà di inviare un testo colmo d’insulti ai propri superiori tramite posta elettronica“;
− dell’aggravante costituita dalla “diffusione della e-mail incriminata a terze persone che non erano i diretti destinatari“;
− del tenore delle espressioni usate che “travalicavano certamente il diritto di cronaca e che erano teoricamente riconducibili a fattispecie penali, quali l’ingiuria e la diffamazione“, circostanza che ha integrato la giusta causa del suddetto licenziamento.

Tuttavia, il principio sancito dalla sentenza di cui sopra si pone apparentemente in contrasto con una pronuncia di poco antecedente, la sentenza n. 10426/2012 della Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, che in un caso molto simile a quello sopra descritto rigettava il ricorso promosso dalla società avverso l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro di un dipendente accusato di aver offeso il superiore gerarchico nonché capoufficio donna, mandandolo letteralmente “a quel paese”.

Nel caso di specie, il dipendente veniva licenziato per giusta causa; tuttavia, tale provvedimento veniva successivamente annullato dal Giudice di prime cure alla luce del fatto che l’episodio si fosse verificato “una tantum“. In particolare, la sentenza di merito definiva la condotta del dipendente una “mera intemperanza verbale“, cui non erano seguiti altri comportamenti “scorretti” e, pertanto, “inidonea a dimostrare una volontà di insubordinazione o di aperta insofferenza nei confronti del potere disciplinare e organizzativo del datore di lavoro“.

Successivamente, la Corte d’Appello chiariva che la frase “era stata pronunciata in un contesto non di contrapposizione, ed era stata preceduta da affermazioni di ordine scherzoso“. Tale condotta, di conseguenza, “ben poteva essere sanzionata con una misura non a carattere espulsivo“.

A seguito poi dell’impugnazione della sentenza d’appello, i giudici di legittimità, accogliendo le motivazioni della decisione ivi impugnata, hanno ribadito che non va incontro al licenziamento il dipendente che offende il capo se tale condotta, seppur “spiacevole e inopportuna“, non integra “una tale gravità da poter compromettere il rapporto fiduciario tra le parti“. La Corte di Cassazione osservava, infine, che la contrattazione collettiva “prevede come sanzione il recesso solo se il diverbio litigioso è seguito dal ricorso a vie di fatto, nel recinto dello stabilimento e che rechi grave pregiudizio alla vita aziendale“, cosicché la società è risultata soccombente.

In linea con la pronuncia da ultimo citata si pone la sentenza n. 15165/2012, con cui la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha sancito l’illegittimità del licenziamento di un dipendente (e rappresentante sindacale) che aveva rivolto un insulto al proprio superiore. Precisamente, la Corte ha affermato che “l’espressione ‘sbruffone’ rivolta all’amministratore unico della società, seppur censurabile sul piano disciplinare, appariva inidonea a giustificare l’adozione della misura espulsiva, essendosi trattato di una semplice reazione emotiva scevra da intenti di minaccia” e altresì ha escluso la sussistenza dell’insubordinazione nel rifiuto del dipendente di ricevere la documentazione relativa alla procedure di mobilità concernente anche la sua posizione lavorativa, ritenendo che “le frasi di apprezzamento negativo dell’iniziativa datoriale espresse dal lavoratore potevano essere ricondotte alle sue prerogative di sindacalista“.

In definitiva, dalle pronunzie sopra citate appare ancora una volta evidente l’importanza del giudizio di proporzionalità della sanzione disciplinare che spetta, in definitiva, solo al Giudice, il quale può, pertanto, decidere in maniera completamente opposta casi apparentemente simili tra loro se non addirittura identici.